Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (BUR) by Sami Modiano

Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (BUR) by Sami Modiano

autore:Sami Modiano [Modiano, Sami]
La lingua: ita
Format: epub
editore: BUR
pubblicato: 2019-11-20T21:00:00+00:00


5

Il ritorno alla vita

Ho iniziato ad accorgermi che i russi stavano arrivando una quindicina di giorni prima della liberazione. I colpi di cannone si sentivano sempre più vicini. Tra noi prigionieri, per non nutrire false speranze, evitavamo di parlarne.

In quegli stessi giorni, però, io ho avuto la sfortuna di essere scelto di nuovo, insieme a una decina di persone, dei ragazzi un po’ più grandi di me, per andare nell’ospedale del campo, il Lager F.

Mi misi l’anima in pace. Erano mesi ormai che avevo imparato ad accettare che la mia fine sarebbe potuta arrivare da un momento all’altro. Sarei sparito nel nulla come mio padre.

La baracca-ambulatorio in cui ci misero era lunga e più stretta di quelle del Lager D e ognuno di noi aveva un lettino. La latrina era all’interno della stessa baracca, in fondo al corridoio.

Non sapevamo per quale motivo, ma continuavano a farci prelievi, una siringa la mattina e l’altra la sera. Era chiaro che avevano bisogno di sangue, anche se era sangue di ebreo. Perché resistessimo a tutti quei prelievi ci davano da mangiare qualcosa di più nutriente del solito e qualche aranciata, ma non era sufficiente. Ero completamente privo di forze; per andare a fare la pipì dovevo farmi accompagnare dagli altri perché non mi reggevo in piedi, barcollavo e cadevo continuamente. Stavo sempre sdraiato, avevo forti vertigini. Ci stavano ammazzando, come sempre, solo in un altro modo.

Ero ormai consumato, quasi del tutto incosciente, uno scheletro che non stava nemmeno in piedi. Come abbia fatto il mio fisico a resistere, non lo saprei spiegare.

Grazie a Dio i prelievi andarono avanti solo per qualche giorno, perché i russi stavano arrivando. All’improvviso smisero di toglierci il sangue e due giorni dopo ci fecero uscire dalla baracca. Era il 17 di gennaio.

Quella sera a Birkenau venne formata una grande colonna. Me la ritrovai davanti, in piena notte. Mi fecero allineare insieme agli altri prigionieri: eravamo una massa che non riuscivo a quantificare, migliaia e migliaia di persone. Ci dovevano spostare verso Auschwitz.

Ricordo che c’erano almeno trenta centimetri di neve.

Ci incamminammo di notte, al freddo, con addosso i nostri laceri pigiami a righe.

Formavamo una lunga colonna di scheletri.

Avanzavamo in trenta centimetri di neve, con ai piedi i nostri zoccoli consumati da mesi e mesi di lavori forzati. A destra e a sinistra ci scortavano delle guardie con i loro cani pastore, mentre in coda eravamo sotto il tiro di una squadra di tedeschi con i fucili mitragliatori che facevano immediatamente piazza pulita di quelli che restavano indietro. Se il prigioniero non si rimetteva in marcia, finiva in coda alla colonna. Lì veniva falciato da una scarica di mitra.

Le chiamavano marce della morte. Non ci si poteva fermare.

Quella notte ho dato fondo a tutte le mie forze, ho marciato fino allo stremo, ma non ce l’ho fatta. Avrò camminato per due chilometri o poco più, poi mi sono arreso. Mi sono lasciato cadere. Non mi tenevo più in piedi. Feci qualche tentativo per rialzarmi, ma era inutile. Da un momento all’altro sarei arrivato in coda.



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